sabato 28 marzo 2009

LA CRISI LA PAGHINO BANCHIERI, PADRONI, EVASORI


Roma, SABATO 28/ marzo: MANIFESTAZIONE NAZIONALE

LA CRISI LA PAGHINO BANCHIERI, PADRONI, EVASORI
GARANTIRE LAVORO, REDDITO, PENSIONI, CASA, SERVIZI PUBBLICI E BENI COMUNI
ROMA P.za Repubblica ore 14,30

In occasione della riunione dei Ministri del Welfare del G14 che si terrà a Roma dal 28 al 31 marzo 2009 il PATTO DI BASE, assieme a tutte le forze sociali e di movimento che si battono per non pagare la crisi, ha organizzato una grande manifestazione nazionale.
Sono migliaia le aziende che chiudono e centinaia di migliaia i licenziamenti, ma il governo foraggia, con i soldi di tutti i cittadini, banchieri e bancarottieri che sono i veri responsabili della più grande crisi economica del dopoguerra.
I lavoratori sono lasciati in balia della crisi, i contratti non vengono rinnovati, la cassa integrazione copre in minima parte, e solo per alcuni, la perdita di salario, centinaia di migliaia di precari vengono mandati a casa senza alcun reddito, si vorrebbe rimettere mano alle pensioni e portare l’età pensionabile delle donne a 65 anni, crescono gli sfratti, si fomenta il razzismo contro gli immigrati e per impedire che i lavoratori e i cittadini si organizzino per difendere salario e diritti, il Governo vorrebbe vietare gli scioperi e le manifestazioni conflittuali

DIFENDIAMO OGNI POSTO DI LAVORO E IL DIRITTO DI SCIOPERO
MOBILITIAMOCI A SOSTEGNO DELLA PIATTAFORMA DEL PATTO DI BASE:

• Blocco dei licenziamenti
• Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
• Aumenti consistenti di salari e pensioni, reddito minimo garantito per chi non ha lavoro
• Aggancio dei salari e pensioni al reale costo della vita
• Cassa integrazione almeno all’80% del salario per tutti i lavoratori/trici, precari compresi, continuità del reddito per i lavoratori “atipici”, con mantenimento del permesso di soggiorno per gli immigrati/e
• Nuova occupazione mediante un Piano straordinario per lo sviluppo di energie rinnovabili ed ecocompatibili, promuovendo il risparmio energetico e il riassetto idrogeologico del territorio, rifiutando il nucleare e diminuendo le emissioni di CO2
• Piano di massicci investimenti per la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e delle scuole, sanzioni penali per gli omicidi sul lavoro e gli infortuni gravi
• Assunzione a tempo indeterminato dei precari e re-internalizzazione dei servizi
• Piano straordinario di investimenti pubblici per il reperimento di un milione di alloggi popolari, tramite utilizzo di case sfitte e mediante recupero, ristrutturazione e requisizioni del patrimonio immobiliare esistente; blocco degli sfratti, canone sociale per i bassi redditi
• Diritto di uscita immediata per gli iscritti/e ai fondi-pensione chiusi.
• Difesa del diritto di sciopero.

CUB – CONFEDERAZIONE COBAS – SdL Intercategoriale

lunedì 16 marzo 2009

Le origini del Colpo di Stato Militare in America nel 2012 (parte prima)

Carlisle
La [ parte di ] lettera che segue ci guida in un'escursione - biecamente immaginata - nel futuro : negli Stati Uniti c'è stato un colpo di stato militare - è l'anno 2012 - ed il generale Thomas. E. T. Brutus, Comandante in Capo delle Forze Armate Unificate degli Stati Uniti, ora occupa la Casa Bianca in qualità di Plenipotenziario Permanente. La sua carica è stata ratificata da un referendum nazionale, benchè continuino ad esplodere disordini e ci siano ancora in corso arresti per sedizione. Un ufficiale delle Forze Armate Unificate, di alto grado ed in congedo, qui indicato semplicemente come Prigioniero 222305759, è uno degli arrestati, ed è stato condotto davanti alla corte marziale per essersi opposto al colpo di stato. Prima della sua esecuzione, riesce a far filtrare fuori dalla prigione una lettera indirizzata ad un suo antico collega della Scuola di Guerra, nella quale discute le "Origini del Colpo di Stato Militare del 2012 in America." Nella lettera egli sostiene che il colpo di stato non sia stato altro che il venir alla luce di tendenze che erano già visibili dal 1992. Queste tendenze consistevano nelle considerevoli deviazioni delle forze militari verso usi civili, nella monolitica unificazione delle forze armate e nell'isolamento della comunità militare. La sua lettera gli è sopravvissuta ed è qui riprodotta parola per parola.
Non occorre dire ( almeno lo spero ), che lo scenario di colpo di stato succitato è puro esercizio letterario finalizzato a rappresentare le mie preoccupazioni su alcuni sviluppi attuali che interessano le forze armate, e non si tratta chiaramente di una previsione.

L'Autore

[ Nota del Traduttore : ritengo che introdurre a questo punto alcuni cenni biografici sull'Autore - e non dopo la bibliografia come nell'originale - contribuisca ad inquadrare meglio 'quanto' ci sia di 'fantasia' nello scritto che stiamo per leggere . L'Autore è Charles J. Dunlap Jr., per la precisione il Tenente Colonnello Charles J. Dunlap Jr., dell' USAF ( United States Air Force ), che ricopre la carica di Deputy Staff Judge Advocate, presso il Comando Centrale USA nella base aerea militare di MacDill, Florida. E' diplomato presso la St. Joseph's University (Pa.), la Villanova University School of Law e presso l'Armed Forces Staff College ed è un Distinguished Graduate del National War College, Classe del 1992. Ha insegnato presso la Air Force Judge Advocate General's School, è stato inviato in Korea e nel Regno Unito. Nel 1987 era un Circuit Military Judge, un First Judicial Circuit e conseguentemente è stato assegnato all' Air Staff nell'Office of the Judge Advocate General. Il Tenente Colonnello Dunlap è stato recentemente nominato dalla Advocates' Association quale USAF's Outstanding Career Armed Services Attorney del 1992. L'articolo che segue è un adattamento del suo scritto di quando era studente alla Scuola Nazionale di Guerra, scritto col quale vinse, a pari merito, il Chairman of the Joint Chiefs of Staff 1991-92 Strategy Essay Competition, competizione alla quale partecipano studenti da tutte le scuole militari superiori. ]

Un Generale alla Casa Bianca

Caro Vecchio Amico,

é difficile credere che siano passati 20 anni da quando ci siamo diplomati alla Scuola di Guerra! Ricordi le grandi discussioni, i viaggi, le feste, la gente ? Che giorni !! Praticamente non mi sono mai più divertito così. Hai sentito dei Processi per Sedizione ? Ebbene sì, ero uno degli arrestati-imprigionati per "affermazioni sleali" e "uso di linguaggio oltraggioso verso ufficiali." Sleale? NO. Oltraggioso ? Puoi scommetterci. Con il Generale Brutus al comando non è difficile essere oltraggiosi. Devo riconoscerlo a Brutus : è un tizio ingegnoso, dopo che il Presidente è morto è riuscito in qualche modo a "persuadere" il Vice Presidente a non prestare il giuramento per l'insediamento. Avremo quindi un Presidente, sì o no? I giornali lo definirono un vero "Enigma Costituzionale." [ 1 ]

Brutus aveva creato esattamente quell'ambiguità necessaria a convincere tutti che lui, quale più alta carica militare, potesse - e dovesse - autodichiararsi Comandante-in-Capo delle Forze Armate Unificate. Ricordi cosa disse ? "Bisogna riempire il vuoto di potere." E Brutus mostrò che sapeva veramente come usare il potere : dichiarò la legge marziale, "rinviò" le elezioni, indusse il Vice Presidente a "dimettersi" e quindi salì alla Casa Bianca ! "E' più produttivo lavorare da qui, " disse. Te lo ricordi ?

Quando il Congresso si riunì quell'ultima volta per gestìre l'approvazione del Referendum Act, io ero pieno di speranze, ma quando un referendum approvò la presa di potere da parte di Brutus, io sapevo che noi eravamo in serio pericolo. Ho promosso una sollevazione, lo sai, cercando di organizzare la protesta. Poi le Forze di Sicurezza mi hanno preso, il mio velocissimo "processo" è stato una barzelletta; la sentenza ? Beh, diciamo che non devi tenere da parte una birra per me per la prossima riunione annuale dato che sembra proprio che non ti rivedrò più, ho quindi pensato di scrivere ogni cosa e di cercare di fartela avere.

Ho intitolato il mio scritto " Le Origini del Colpo di Stato Militare in America del 2012." Penso sia importante avere una registrazione della verità, prima che loro riscrivano la storia. Se mai sarà che riavremo indietro la nostra libertà, noi dovremo aver capito come è successo che siamo finiti in un casino del genere. La gente ha bisogno di comprendere che le forze armate esistono per sostenere e difendere il governo, non per essere il governo. Dovendo da una parte fronteggiare ardui problemi nazionali, ed un sistema militare potente ed attivo dall'altra, può essere assolutamente irresistibile iniziare a vedere l'esercito come una soluzione dal costo ragionevole. Ma abbiamo commesso un errore terribile quando abbiamo permesso alle forze armate di essere deviate dal loro scopo originario. Ho trovato una scatola con i miei scritti ed appunti di quando eravamo alla Scuola di Guerra, ho detto ai miei carcerieri che mi serviva per scrivere la confessione che loro volevano. E' sorprendente, scorrere fra quelle vecchie pagine mi ha fatto rendere conto che già nel 1992 avremmo dovuto vedere che la cosa stava iniziando. I semi di questo oltraggio erano già lì, solo non ci rendevamo conto di come sarebbero cresciuti. Ma non è sempre così con cose del genere ? Qualcuno una volta disse : " nelle cose umane, i veri spartiacque sono casualmente colti nel mucchio tumultuante dei titoli trasmessi ogni ora." [ 2 ]

E negli anni 90 avevamo un sacco di titoli di testa che ci distraevano : l'economia era nella cacca, il crimine aumentava, la scolarità si deteriorava, l'uso delle droghe cresceva a dismisura, l'ambiente si avvelenava e di scandali politici ce n'era uno al giorno. Eppure, c'erano anche alcune buone notizie : la fine della Guerra Fredda e la recente vittoria dell'America in Iraq.

Tutto questo, ed altro, ha contribuito alla situazione nella quale ci troviamo noi oggi : un militare controlla il governo, ed uno che, somma ironia, non può combattere. Non è stata nessuna causa da sola a portarci fino a questo punto, al contrario è stata una combinazione di svariati e differenti sviluppi, le radici dei quali erano evidenti già nel 1992.

Ed ecco quello che penso sia successo:
Gli Americani si sono ritrovati esasperati dalla democrazia, eravamo scoraggiati dall'apparente incapacità dei governi eletti di venir fuori dai dilemmi della nazione. Cercavamo qualcuno o qualcosa che potesse produrre risposte praticabili e la sola istituzione governativa nella quale la gente aveva conservato la fiducia era l'esercito.

Esaltato dalla ovvia capacità dei militari mostrata nella Prima Guerra del Golfo, il pubblico si rivolse sempre di più ai militari per la soluzione dei problemi del paese. Agli inizi degli anni '80, gli Americani promossero un'accelerazione di tale tendenza affidando ai militari una varietà di nuovi compiti, di missioni non tradizionali, e facendo aumentare considerevolmente il coinvolgimento dell'esercito in attività precedentemente secondarie.

Benchè la cosa al momento non fosse evidente, l'effetto assommato di tali nuove responsabilità fu l'incorporazione - ad un livello mai visto prima - dell'esercito all'interno dei meccanismi politici. Questi compiti aggiuntivi ebbero anche un effetto perverso, quello di spostare l'attenzione e le risorse dallo scopo militare centrale costituito dall'addestramento al combattimento e dalla guerra. Infine, i cambiamenti organizzativi, politici e della società sono serviti a modificare la cultura militare americana. L'esercito di oggi non è quello che conoscevamo quando ci siamo diplomati alla Scuola di Guerra.

Permettetemi di spiegare come sono giunto a queste conclusioni : nel 1992 pochi avrebbero pensato che un colpo di stato militare potesse mai verificarsi in questo paese. Certo, c'erano eccentrici teorici cospirazionisti che vedevano la mano del Pentagono nell'assassinio del Presidente Kennedy, [ 3 ] nella caduta del Presidente Nixon, [ 4 ] ed in altri eventi analoghi. Ma anche il più desideroso di crederci deve ammettere che non si era mai verificato prima nessun chiaro colpo di stato militare.

(Fine Parte 1 - Un Generale alla Casa Bianca)

CHARLES J. DUNLAP, JR.



venerdì 6 marzo 2009

Consumo dunque sono

imprenta dae rainews24

Zygmunt Bauman è un attentissimo interprete ante litteram dei social network come Facebook e più in generale della socialità così come si sviluppa attraverso la Rete. E’ stimolante e fulminante per la chiarezza espositiva la sua capacità di analisi e di racconto delle modalità di relazione contemporanee.

Nello scenario che Bauman descrive, caratterizzato dalla fragilità delle relazioni affettive (descritte già in Amore liquido , Laterza, 2003), l’uomo senza qualità protomoderno – descritto dal romanzo di Musil - si è trasformato in un uomo senza legami. Un homo oeconomicus che abita con disinvoltura l'economia di mercato, mutuandone, per effetto di un'abnorme legge osmotica, i criteri validi anche per la sua sfera personale. Per cui un rapporto, proprio come un prodotto, deve avere caratteristiche di convenienza, di sostituibilità in ogni momento, di risposta a un desiderio, o magari a una più disimpegnata ‘voglia’. In questa ottica le emozioni sono delle trappole per loro natura 'diseconomiche', perché poi possono dare ‘dipendenza’. In una società ferocemente individualistica, le relazioni esprimono nel modo più netto l’odierna ambivalenza, tra sogno e incubo, tra libertà appagata, e schiavitù frustrata. Si vuole vivere l’ossimoro dell’esserne dentro e fuori allo stesso tempo; l’amore non è più «consegnarsi in ostaggio a un destino», accettare l’incognita che sempre l’Altro rappresenta, ma diventa l’arte di alimentare la «relazione tascabile», pronta all’uso, e sulla quale esiste un controllo totale.

La teorie esposte nel suo ultimo saggio (Consumo, dunque sono , Laterza 2008) rafforzano la saldatura persona/consumatore e vita sociale/ vita elettronica. Anche il soggetto diventa una merce. In questo consumo continuo si è spinti dalla ricerca di una felicità “istantanea e perpetua” che somiglia di più ai premi di una lotteria che al frutto di creatività e dedizione, e che è tutto un fare e disfare, un perseguire ‘nuovi inizi’. Questo processo è imbattibile perché si autoalimenta: mantiene sempre forte l'insoddisfazione, che è il motore essenziale del consumismo.

La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel l’acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l’altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento.

Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l’etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev’essere il rimanere insoddisfatti. (...)


Una legge che viene ribadita paradossalmente anche in questo tempo di crisi economica, dove non si hanno soldi da spendere eppure ‘si deve’ spendere, altrimenti la macchina economica si ferma (e la 'colpa' è imputabile al consumatore negligente).

In una società di consumatori e in un’era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l’economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.

In questo scenario la cosa peggiore è che si consuma anche la sostanza del nostro desiderio. Da qui il senso di impotenza, l’alienazione frustrante e l’insoddisfazione.

Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c’è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera ? si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l’Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre ? i ricordi delle cose, animate o inanimate ? che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... (...)

Lo sguardo di Bauman ha il solo limite di una sorta di manicheismo che contrappone la società 'solida-moderna' a quella 'liquida-postmoderna', una perduta età dell’oro a una incongrua giungla di consumi, che siano di di merci o di relazioni. Si perde così la positività di un presente che si può dire anche ‘finalmente fluido’, dove le persone non restano inchiodate per sempre alla loro cerchia di conoscenze e saperi. (Cristina Bolzani)

mercoledì 25 febbraio 2009

1947: le Nazione Unite non avevano la competenza per dividere la Palestina

Henry Cattan, Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare



29 novembre 1947: il complotto internazionale contro la Palestina
Traduzione del capitolo 6 del libro di Henry Cattan, The Palestine Question, Croom Helm, London, New York, Sydney; 1988, Henry Cattan; pagine: 32-40.
Henry Cattan altri non è che il portavoce dell'Alto comitato arabo che rappresentò il popolo della Palestina durante il dibattito che si articolò sulla questione della Palestina alle Nazioni Unite nel 1947.
La Palestina e le Nazioni Unite
Nella sua lettera al Segretario generale delle Nazioni Unite datata 2 aprile 1947, il governo britannico chiese che la Questione palestinese fosse iscritta all'ordine del giorno della successiva sessione dell'Assemblea Generale, durante la quale sarebbe stata chiamata a pronunciare delle raccomandazioni, secondo l'articolo 10 della Carta, sul futuro politico della Palestina. Una sessione speciale dell'Assemblea Generale per trattare questo problema venne fissata per il 28 aprile 1947.
Cinque stati arabi, Egitto, Iraq, Siria, Libano e Arabia Saudita chiesero al Segretario Generale di includere all'ordine del giorno della sua sessione speciale, la fine del mandato sulla Palestina e la dichiarazione della sua indipendenza.
Il Mandato si conclude con lo scioglimento della Società delle Nazioni
Dobbiamo considerare che il mandato sulla Palestina era oramai legalmente giunto alla sua conclusione a seguito dello scioglimento della Società delle Nazioni (SDN) nell'aprile 1946. Il mandato era esercitato in quanto potere tutelare sotto l'egida della SDN. In una risoluzione adottata nella sua ultima riunione, il 18 aprile 1946, la SDN ricordava che l'articolo 22 della Convenzione inerente ai territori posti sotto mandato, garantiva: il principio al benessere e allo sviluppo dei loro abitanti nei termini di un sacro impegno civilizzatore, e riconosceva anche che, al termine dell'esistenza della SDN, le sue funzioni relative ai mandati sarebbero state destinate a concludersi. La SDN registrò le intenzioni dei suoi membri che amministravano i territori sotto mandato di continuare ad amministrarli per il benessere e lo sviluppo delle relative popolazioni fino a che si fossero trovate le idonee sistemazioni tra le Nazioni Unite e le potenze mandatarie conformemente alla Carta delle Nazioni Unite. Alcuni paesi sotto mandato dichiararono la loro intenzione di concludere degli accordi di amministrazione secondo la Carta, ma la delegazione egiziana spiegò che il mandato si era concluso con lo scioglimento della SDN e, per tanto, la Palestina non sarebbe potuta essere posta sotto amministrazione.
I procedimenti alle Nazioni Unite nel 1947: il piano di spartizione della Palestina
Quando la questione della Palestina fu discussa alle Nazioni Unite nel 1947, gli ebrei ed i palestinesi furono invitati ad esporre i loro punti di vista. I primi, rappresentati dal rabbino Hillel Silver, chiesero la ricostituzione del focolare nazionale ebraico in Palestina conformemente alla Dichiarazione di Balfour, facendo riferimento al martirio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e lanciando un appello per lo stabilimento di uno stato ebraico in Palestina. L'autore di queste righe [Henry Cattan, vecchio giurista ed avvocato in Palestina prima della creazione di Israele, in Siria, in Giordania ed in Libano, N.d.T.] presentò il punto di vista della Palestina in qualità di portavoce dell'Alto comitato arabo che rappresentava il popolo della Palestina. Si oppose al piano di spartizione e sottolineò che gli arabi della Palestina avevano diritto alla loro indipendenza sulla base della Carta e dei loro diritti naturali ed inalienabili.
Gli stati arabi spiegarono che l'unica soluzione per le Nazioni Unite consisteva nel riconoscimento della fine del mandato insieme all'indipendenza della Palestina. Tuttavia, a seguito delle manovre dei sionisti e dei loro amici, la proposta araba non ottenne la maggioranza richiesta. Al suo posto, l'Assemblea Generale costituì il 15 maggio 1947 un Comitato speciale sulla Palestina (UNSCOP) per redigere un rapporto sulla Questione della Palestina da sottoporre alla successiva sessione. Tuttavia, i palestinesi boicottarono l'UNSCOP e non parteciparono alle sue inchieste. L'UNSCOP propose due piani, uno maggioritario, l'altro di minoranza. Il piano maggioritario prevedeva la fine del mandato e la spartizione della Palestina, la creazione di uno stato arabo e di uno ebraico, con un'unione economica tra loro ed un corpus separatum per la città di Gerusalemme, che sarebbe stata posta sotto regime speciale internazionale amministrato dalle Nazioni Unite. Anche il piano minoritario contemplava la fine del mandato, ma proponeva la creazione di uno stato federale che avrebbe compreso uno stato arabo ed ebraico con Gerusalemme come capitale della federazione. Durante il dibattito che ne seguì, gli arabi rigettarono la proposta di spartizione, considerando il problema della competenza o potere delle Nazioni Unite di raccomandare la spartizione della loro patria in due stati e di conseguenza violare la sua integrità territoriale. Sollevarono anche la questione della nullità della Dichiarazione di Balfour e del mandato. Il Sotto-comitato II per la Commissione ad hoc sulla Questione della Palestina raccomandò che questi punti fossero sottoposti al parere della Corte Internazionale di giustizia. Tuttavia, questa raccomandazione così come le numerose richieste degli arabi di sottoporre tali punti alla Corte Internazionale di giustizia furono scartate dall'Assemblea Generale.
L'opposizione degli ebrei alla spartizione
La spartizione della Palestina fu rigettata non solo dagli arabi palestinesi ma anche dagli ebrei ortodossi nativi della Palestina, che avevano vissuto in buoni rapporti con i loro vicini arabi. In effetti, il concetto di focolare nazionale ebraico era estraneo agli ebrei ortodossi originari della Palestina. Ronalds Storrs, il primo governatore britannico della Palestina, scrisse: "I religiosi ebrei di Gerusalemme e di Hebron ed i Sefarditi si opponevano violentemente al sionismo politico". Opposizione anche per gli uomini politici ebrei. Le più notevoli opposizioni tra quante osteggiavano la spartizione erano di Sir Herbert Samuel, il primo Alto commissario in Palestina, e J. L. Magnes, presidente dell'Università ebraica di Gerusalemme. I due si opponevano al fatto che la Dichiarazione di Balfour potesse condurre ad uno stato ebraico. In un discorso alla Camera dei Lord il 23 aprile 1947, Sir Herbert Samuel, allora Visconte Samuel, disse: "Non sostengo la spartizione, perché, data la mia possibilità di conoscere il paese, ciò sembra essere geograficamente impossibile. Questo creerà altrettanti problemi di quanti ne potrebbe risolvere". Nella sua deposizione davanti al Comitato anglo-americano d’inchiesta sulla Palestina, J. L. Magnes dichiarò: "Gli arabi possiedono importanti diritti naturali in Palestina. Sono stati là per secoli. Le tombe dei loro antenati sono là. Ci sono tracce della cultura araba in ogni angolo. La Moschea di El-Aqsa è la terza moschea sacra dell'Islam…".
In un memorandum all'UNSCOP datato 23 luglio, L. J. Magnes spiegava la sua opposizione alla spartizione in questi termini: "Ci viene chiesto il perché della nostra opposizione alla spartizione della Palestina… Pensiamo che una vera separazione sia impossibile. Ovunque vogliate mettere i confini dello stato ebraico, ci sarà sempre una minoranza araba molto grande… è impossibile tracciare dei confini soddisfacenti dal punto di vista economico… Più lo stato ebraico è grande, più l'esistenza economica dello stato arabo risulta impossibile"…
"Se l'obiettivo è di promuovere la pace, delle frontiere accettabili non possono essere determinate. Laddove porrete queste frontiere, troverete personalità radicali dai due lati della frontiera. Le posizioni radicali conducono quasi sempre alla guerra… C'è chi dice che dobbiamo accettare la spartizione adesso, perché 'le frontiere non sono eterne’… In altri termini, la Palestina ebraica frazionata potrebbe essere il primo passo di una futura conquista di tutto il paese".
"Molti ebrei sono a favore della spartizione…Però, ci sono molti ebrei, siano moderati oppure estremisti, religiosi o no, che si oppongono… Imporre la spartizione potrebbe essere un'impresa rischiosa"
"Per tutte queste condizioni, troviamo strano che nessuno pretenda una spartizione che sia, almeno per quanto lo riguarda, definitiva. Ci sembra non essere altro che l’inizio di una guerra reale… forse tra ebrei, e di una guerra tra ebrei ed arabi".
Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica appoggiano la spartizione
Benché l'ambizione sionista di creare uno stato ebraico non fosse condivisa da tutti gli ebrei, i sionisti mobilitarono tutte le loro forze per garantire un voto delle Nazioni Unite favorevole alla spartizione. Riuscirono a portare dalla loro parte Harry Truman, presidente degli USA, che per ragioni elettorali legate al voto ebraico impiegò la sua immensa influenza per convincere parecchi membri delle Nazioni Unite a votare in favore della spartizione. Anche l'Unione Sovietica ha favorito la spartizione essenzialmente per due ragioni: in primo luogo per mettere fine all'amministrazione britannica in Palestina e, secondariamente, per il fatto che la grande maggioranza degli emigranti ebrei in Palestina veniva da Unione Sovietica, Polonia ed Europa centrale, e sperava in uno stato ebraico suo alleato in Medio Oriente. Sotto l'influenza congiunta di Stati Uniti, Unione Sovietica, e dei loro satelliti, l'Assemblea generale adottò il 29 novembre 1947 la Risoluzione 181 (II) per la spartizione della Palestina in uno stato arabo ed uno stato ebraico, con 33 voti a favore, 13 contro e 10 astensioni. Il Regno Unito si astenne. I voti contrari erano quelli degli stati arabi: Egitto, Iraq, Libano, Arabia Saudita, Siria e Yemen; di quattro paesi musulmani: Afghanistan, Iran, Pakistan, Turchia; più Cuba, Grecia e India.
Le frontiere tra i due stati furono fissate nella risoluzione. Secondo queste, la superficie dello stato arabo avrebbe dovuto essere di 11.800 km² cioè il 42% della superficie totale della Palestina, mentre allo stato ebraico sarebbero andati 14.500 km² che rappresentano il 57% della Palestina. Inoltre, la risoluzione ha previsto un corpus separatum per la città di Gerusalemme che sarebbe stata sottoposta ad uno speciale regime internazionale sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite. La risoluzione stipulava inoltre la formazione di un’unione economica tra i due stati dal momento che, senza di essa, la spartizione avrebbe reso lo stato arabo irrealizzabile.
Era stato previsto che questi due stati ed il regime speciale di Gerusalemme avrebbero visto la luce due mesi dopo la fine dell'evacuazione delle forze armate mandatarie. Nel dicembre 1947, il governo britannico informò le Nazioni Unite che il 15 maggio 1948 avrebbe messo fine al mandato e ritirato le sue forze. Il ruolo giocato dagli USA e dall'Unione Sovietico nell’influenzare il voto in favore della spartizione è stato riconosciuto dal Dipartimento di stato americano nel Rapporto del suo staff di programmazione politica riguardo l'atteggiamento degli USA nei confronti della Palestina, in data 19 gennaio 1948. Questo rapporto dice in sostanza: "Gli USA e l'URSS hanno giocato un ruolo determinante nel voto favorevole alla spartizione. Senza la leadership americana e le pressioni che sono state esercitate nel corso delle deliberazioni sulla Palestina, la maggioranza dei due-terzi necessari al voto non si sarebbe ottenuta… E’ stato dimostrato che le personalità e le organizzazioni americane non governative, ivi compresi i membri del Congresso, soprattutto alla fine della sessione dell'Assemblea, hanno esercitato pressioni su diversi delegati stranieri e sui loro governi per spingerli a sostenere l'atteggiamento degli USA sulla Questione palestinese. Prove a questo riguardo sono presenti in allegato"
Malgrado gli USA abbiano sostenuto la spartizione della Palestina e la creazione dello stato ebraico, sarebbe importante per la storia segnalare le voci dissonanti di almeno tre alti rappresentanti dell'amministrazione americana. James Forrestal, segretario alla Difesa, condannò nei suoi memoriali le manovre utilizzate per assicurare il voto favorevole alla spartizione. Forrestal affermava che "la nostra politica palestinese è stata dettata da sordide mire politiche"… Warrin Austin, rappresentante americano alle Nazioni Unite, si oppose alla spartizione nelle discussioni con la sua delegazione. Questo documento lo attesta: "In linea col principio dichiarato degli USA di sostenere le Nazioni Unite nella difesa dell’indipendenza e dell’integrità politica, l'ambasciatore Austin non vedeva come fosse possibile tagliare un pezzo di terra per farne uno stato partendo da un territorio esso stesso troppo piccolo per uno stato. Pensava che un simile stato si sarebbe di certo dovuto difendere per sempre con le baionette, fin quando sarebbe morto nel sangue. Gli arabi, sosteneva, non avrebbero mai accettato al loro interno uno stato così piccolo".
Una critica più severa al piano di spartizione della Palestina è stata espressa da Lord Henderson, direttore dell'Ufficio del Medio Oriente e degli Affari africani al Dipartimento di Stato. In una relazione al Segretario di stato del 22 settembre 1947, criticò il rapporto di maggioranza dell'UNSCOP che sosteneva la spartizione, dichiarando che non era negli interessi degli USA sostenere il piano di spartizione o la creazione di uno stato ebraico. Fece riferimento all'inchiesta del Comitato anglo-americano che non appoggiava la spartizione. Loy Henderson proseguiva affermando: "Non abbiamo obblighi nei confronti degli ebrei per creare uno stato ebraico. La Dichiarazione Balfour ed il mandato non prevedevano uno stato ebraico, ma un focolare nazionale ebraico". Sottolineò inoltre che la spartizione sarebbe avvenuta "in totale violazione di diversi principi previsti nella Carta, come dei principi su cui si basano le idee americane di politica".
Nullità della risoluzione di spartizione
Sulla Risoluzione che decise la spartizione pesano grossolane irregolarità che possono essere riassunte nel seguente modo:
1) Non competenza dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella divisione della Palestina. Le Nazioni Unite non avevano alcuna sovranità sulla Palestina, né il potere di privare il popolo della Palestina del diritto all'indipendenza su tutta la propria patria, come di lederne i diritti nazionali. Da allora, la risoluzione delle Nazioni Unite per la spartizione della Palestina non possiede alcun valore, nel diritto o nei fatti, così come riconosciuto da numerosi ed eminenti giuristi. P. B. Potter ha notato che "Le Nazioni Unite non hanno alcun diritto di stabilire una soluzione in Palestina…" […]
2) Ingiustizia per il rifiuto da parte dell'Assemblea Generale nei riguardi di numerose istanze di sottoporre al parere della Corte Internazionale di giustizia le questioni dell'incompetenza dell'Assemblea Generale o dell'illegalità della Dichiarazione di Balfour, o del Mandato. P. B. Potter ha notato che tale diniego "tende a confermare la violazione della legge internazionale". Questa trasgressione costituisce una negazione della giustizia che ha svuotato la Risoluzione sulla spartizione di ogni valore giuridico".
3) Violazione dell'articolo 22 della Convenzione della SDN che riconosceva provvisoriamente l'indipendenza del popolo palestinese e prendeva in considerazione un mandato temporaneo sulla Palestina con l’obiettivo di indirizzare i suoi abitanti verso una totale indipendenza.
4) Violazione della Carta delle Nazioni Unite e del principio di autodeterminazione del popolo della Palestina.
5) Violazione dei più elementari principi di democrazia, ignorando in modo flagrante la volontà della maggioranza degli abitanti originari, che si opposero alla spartizione della Palestina.
6) Influenza illegittima esercitata dall'amministrazione americana, e personalmente dal presidente degli USA, per garantire il voto dell'Assemblea Generale in favore della spartizione.
7) Palese ingiustizia del piano di spartizione.
Da un lato, più di mezzo milione di palestinesi sarebbero stati assoggettati al potere ebraico in uno stato ebraico per opera degli immigrati portati in Palestina contro la volontà delle popolazioni d’origine. Come delineato nel piano di spartizione, la popolazione del prospettato stato ebraico consisteva in 509.780 musulmani e cristiani e 499.020 ebrei. Secondo le statistiche fissate dal governo palestinese, alla fine del Mandato gli ebrei possedevano 1.491.699 dunums di terra (1 dunum equivale a 1000m²) su un totale di 26.323.023 dunums, che rappresentano la superficie della Palestina, ovvero il 5,66%. Questo è stato riconosciuto da David Ben Gurion, allora Presidente dell'Agenzia ebraica e più tardi Primo ministro di Israele, nella sua testimonianza davanti all'UNSCOP nel 1947. Ha dichiarato: "Gli arabi possiedono il 94% della terra, e gli ebrei solamente il 6%".
Malgrado ciò, gli ebrei, che rappresentavano solo meno di un terzo della popolazione totale della Palestina e che per la maggior parte erano stranieri, hanno avuto diritto ad una porzione di territorio dieci volte maggiore di quanto realmente possedevano. Questa non si chiama spartizione, ma spoliazione.
Gli Stati arabi hanno proclamato la loro opposizione alla Risoluzione di spartizione perché la considerarono una violazione della Carta e illegittima. I palestinesi rigettarono anche la spartizione della loro patria, mentre gli ebrei la accettarono "con riserva". I palestinesi e gli arabi sono stati accusati in generale di intransigenza, di mancanza di spirito di compromesso e di errore a causa del loro rifiuto della spartizione, mentre gli ebrei sono stati lodati per il loro atteggiamento conciliante e per la loro stessa accettazione "a malincuore"della spartizione. Questa critica è stata confutata da un osservatore neutrale nella persona di J. Bowyer Bell in questi termini: "È troppo facile parlare a posteriori degli errori degli arabi, delle loro opportunità fallite, della loro intransigenza. È tuttavia troppo facile chiedere ad altri di dare la metà del loro pane. Le argomentazioni degli arabi sono sicuramente giustificate … Semplificata, la posizione dei sionisti appare come quella di coloro che, di fronte al dilemma palestinese, propongono di tagliare la mela in due, mentre gli arabi vorrebbero averla per intero. Così ingenuo, così furbo, tuttavia, quest’argomento finisce per spingere il punto di vista arabo verso il lato sbagliato. La cosa più grave in tutto ciò, è che ha ben funzionato".
Il giudizio di Salomone
La Risoluzione sulla spartizione potrebbe sembrare ad alcuni come un tipico giudizio salomonico. Per tanto, quando il re Salomone fu chiamato a dare il suo giudizio sulla disputa tra due donne che reclamavano entrambe lo stesso bambino, ordinò di tagliarlo in due, per "darne metà ad una e metà all’altra" (1 Re 3,25). Con ciò egli volle solamente fare esplodere la verità e conoscere la vera madre del bambino. Quando riuscì nel suo intento, ordinò di non sacrificare il bambino ma di renderlo alla sua vera madre. Ma nel caso della Palestina, la saggezza del re Salomone non è stata applicata, e la Palestina è stata tagliata effettivamente in due e da allora, difatti, non ha più smesso di sanguinare.
Fonte: Allahouakbar.com


Articolo originale:
www.michelcollon.info/articles.php?dateaccess=2009-01-01%201
0:26:23&log=lautrehistoire






:: Article nr. s9267 sent on 15-nov-2009 22:29 ECT
www.uruknet.info?p=s9267

Link: www.resistenze.org/sito/te/cu/st/cust9b12-004499.htm

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sabato 24 gennaio 2009

Povera Europa, le piazze in fiamme

Il governo dell’Islanda vacilla sotto le pietre dei cortei. Ma l’effetto domino si propaga a Riga, Sofia, Vilnius.

MARCO ZATTERIN


BRUXELLES - Non c’è il Quarto stato in piazza, si contano sulle dita di una mano gli operai fra i tanti che da giorni tirano pietre, carta igienica, e - moda che s’afferma - scarpe, contro i palazzi del potere di Reykjavik. L’anima della rivolta sono coloro che hanno perso la ricchezza, non quelli che non l’hanno mai avuta. L’Islanda era sino a due anni fa regina in ogni classifica di sviluppo e benessere, un Bengodi che cresceva senza sosta. Poi c’è stata la crisi finanziaria, la bancarotta generalizzata, il prodotto interno lordo previsto in flessione di 10 punti. Il popolo della piccola tigre dell’Atlantico del Nord, terra di geyser, di banche e di Suv, teme di perdere tutto e protesta sull’orlo di una crisi di nervi. Da martedì i cortei sfilano davanti all’Althing, il parlamento islandese. Giovedì, per la prima volta dal 1949, anno dell’adesione alla Nato, sono intervenuti i reparti antisommossa coi gas lacrimogeni per disperdere la folla. Erano due-tremila anime, ma sull’isola fredda fanno l’un per cento della popolazione. Hanno bersagliato con uova e lattine persino l’auto del premier Geir Haarde, che ieri ha annunciato elezioni anticipate per il 9 maggio. Vogliono che la politica si rimbocchi le maniche, risolva la crisi, allontani i corrotti.


La gente comune non si sente colpevole della crisi e non intende pagarne il prezzo. Tocca a deputati e banchieri. Per questo è pronta a tutto. Capita però che non siano i soli. E che all’insofferenza islandese se ne accompagni una diffusa nei Paesi del Baltico, nell’Europa dell’Est e, madre di tutte le recenti proteste, in Grecia. Gli osservatori cominciano a segnalare un’ondata circolare di disordini latenti in numerosi stati. La diagnosi diffusa è che la crisi economica provocherà presto altri sommovimenti. «Può succedere quasi dappertutto - ha detto alla Bbc il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss Kahn -, può capitare da noi come nei Paesi emergenti. Sinora abbiamo avuto scioperi che sembrano normali, ma credo che la situazione possa peggiorare in fretta». E’ un quadro «molto, molto serio», stigmatizza il francese di Washington. Ha motivo di essere preoccupato. Una settimana fa se le sono date di santa ragione a Sofia. Duemila persone si sono raccolte davanti al parlamento bulgaro spinte dal desiderio, dicevano gli organizzatori, «di non essere più il Paese più povero e corrotto dell’Ue».



Fianco a fianco hanno sfilato gli agricoltori, preoccupati per il basso valore dei loro prodotti, e gli studenti, infuriati per la troppa criminalità e insicurezza. Le forze dell’ordine ci sono andate pesanti. Botte e arresti. Gli analisti fanno notare che il male bulgaro è una questione di malcostume politico, non di crisi economica, perché il Paese non è in recessione (Pil 2009 previsto a 1,8%). L’insofferenza è però abile a colpire nel debole ogni volta che varca un confine. Ed è contagiosa. Ne sa qualcosa il governo lettone. A Riga si sono avuti i disordini più violenti dalla caduta della Cortina di ferro. Un corteo di 10 mila persone ha sfidato apertamente la polizia per chiedere un’azione di rilancio economico al governo. Quest’anno la crescita nello Stato baltico sarà negativa di 7 punti e la disoccupazione raddoppierà al 10%.

«E’ crollata la fiducia nelle istituzioni», concede il presidente Valdis Zatlers, ormai rassegnato a spingere per le elezioni anticipate. Pochi giorni prima la capitale lituana Vilnius è stata teatro di uno spettacolo simile: manifestanti che lanciano uova e pietre, polizia in assetto antisommossa, lacrimogeni. «Sono segnali seri e non ancora gravi - spiega una fonte diplomatica di Bruxelles -. Il problema è se la scintilla dovesse reinnescarsi nei grandi Paesi, anzitutto in Grecia». E l’Italia? «E’ tranquilla, per il momento». Ad Atene, in effetti, i sindacati minacciano nuovi scioperi «probabili» dopo l’ondata di violenza di dicembre. Gli economisti stimano che il barometro della tensione si muoverà in parallelo con l’andamento della disoccupazione. Vuol dire che Francia, Spagna e Irlanda sono sul livello di guardia. «C’è una crescente convinzione che le autorità pubbliche hanno perso il controllo della situazione», puntualizza Robert Wade, un economista della London School of Economics. Occorre una sana iniezione di fiducia nel momento in cui la crisi picchia più duro. «In caso contrario - si sottolinea a Bruxelles - sarà la piazza a parlare. Con conseguenza realmente difficili da prevedere».

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mercoledì 7 gennaio 2009