Il governo dell’Islanda vacilla sotto le pietre dei cortei. Ma l’effetto domino si propaga a Riga, Sofia, Vilnius.
MARCO ZATTERIN
BRUXELLES - Non c’è il Quarto stato in piazza, si contano sulle dita di una mano gli operai fra i tanti che da giorni tirano pietre, carta igienica, e - moda che s’afferma - scarpe, contro i palazzi del potere di Reykjavik. L’anima della rivolta sono coloro che hanno perso la ricchezza, non quelli che non l’hanno mai avuta. L’Islanda era sino a due anni fa regina in ogni classifica di sviluppo e benessere, un Bengodi che cresceva senza sosta. Poi c’è stata la crisi finanziaria, la bancarotta generalizzata, il prodotto interno lordo previsto in flessione di 10 punti. Il popolo della piccola tigre dell’Atlantico del Nord, terra di geyser, di banche e di Suv, teme di perdere tutto e protesta sull’orlo di una crisi di nervi. Da martedì i cortei sfilano davanti all’Althing, il parlamento islandese. Giovedì, per la prima volta dal 1949, anno dell’adesione alla Nato, sono intervenuti i reparti antisommossa coi gas lacrimogeni per disperdere la folla. Erano due-tremila anime, ma sull’isola fredda fanno l’un per cento della popolazione. Hanno bersagliato con uova e lattine persino l’auto del premier Geir Haarde, che ieri ha annunciato elezioni anticipate per il 9 maggio. Vogliono che la politica si rimbocchi le maniche, risolva la crisi, allontani i corrotti.
La gente comune non si sente colpevole della crisi e non intende pagarne il prezzo. Tocca a deputati e banchieri. Per questo è pronta a tutto. Capita però che non siano i soli. E che all’insofferenza islandese se ne accompagni una diffusa nei Paesi del Baltico, nell’Europa dell’Est e, madre di tutte le recenti proteste, in Grecia. Gli osservatori cominciano a segnalare un’ondata circolare di disordini latenti in numerosi stati. La diagnosi diffusa è che la crisi economica provocherà presto altri sommovimenti. «Può succedere quasi dappertutto - ha detto alla Bbc il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss Kahn -, può capitare da noi come nei Paesi emergenti. Sinora abbiamo avuto scioperi che sembrano normali, ma credo che la situazione possa peggiorare in fretta». E’ un quadro «molto, molto serio», stigmatizza il francese di Washington. Ha motivo di essere preoccupato. Una settimana fa se le sono date di santa ragione a Sofia. Duemila persone si sono raccolte davanti al parlamento bulgaro spinte dal desiderio, dicevano gli organizzatori, «di non essere più il Paese più povero e corrotto dell’Ue».
Fianco a fianco hanno sfilato gli agricoltori, preoccupati per il basso valore dei loro prodotti, e gli studenti, infuriati per la troppa criminalità e insicurezza. Le forze dell’ordine ci sono andate pesanti. Botte e arresti. Gli analisti fanno notare che il male bulgaro è una questione di malcostume politico, non di crisi economica, perché il Paese non è in recessione (Pil 2009 previsto a 1,8%). L’insofferenza è però abile a colpire nel debole ogni volta che varca un confine. Ed è contagiosa. Ne sa qualcosa il governo lettone. A Riga si sono avuti i disordini più violenti dalla caduta della Cortina di ferro. Un corteo di 10 mila persone ha sfidato apertamente la polizia per chiedere un’azione di rilancio economico al governo. Quest’anno la crescita nello Stato baltico sarà negativa di 7 punti e la disoccupazione raddoppierà al 10%.
«E’ crollata la fiducia nelle istituzioni», concede il presidente Valdis Zatlers, ormai rassegnato a spingere per le elezioni anticipate. Pochi giorni prima la capitale lituana Vilnius è stata teatro di uno spettacolo simile: manifestanti che lanciano uova e pietre, polizia in assetto antisommossa, lacrimogeni. «Sono segnali seri e non ancora gravi - spiega una fonte diplomatica di Bruxelles -. Il problema è se la scintilla dovesse reinnescarsi nei grandi Paesi, anzitutto in Grecia». E l’Italia? «E’ tranquilla, per il momento». Ad Atene, in effetti, i sindacati minacciano nuovi scioperi «probabili» dopo l’ondata di violenza di dicembre. Gli economisti stimano che il barometro della tensione si muoverà in parallelo con l’andamento della disoccupazione. Vuol dire che Francia, Spagna e Irlanda sono sul livello di guardia. «C’è una crescente convinzione che le autorità pubbliche hanno perso il controllo della situazione», puntualizza Robert Wade, un economista della London School of Economics. Occorre una sana iniezione di fiducia nel momento in cui la crisi picchia più duro. «In caso contrario - si sottolinea a Bruxelles - sarà la piazza a parlare. Con conseguenza realmente difficili da prevedere».
www.lastampa.it
sabato 24 gennaio 2009
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento